Abigail George è una poetessa e scrittrice femminista sudafricana residente a Port Elizabeth. Nata nel 1979, è molto prolifica: ha scritto una novella, numerosi libri di poesia e raccolte di racconti brevi. È stata candidata al Pushcart Prize e ha vinto due borse di studio per scrittori del South African National Arts Council e una del Centre for the Book and the Eastern Cape Provincial Arts and Culture Council.
Descrivendo le sue origini, il suo senso d’identità e la sua scrittura, ci ha detto: “So che George è un cognome molto diffuso nell’isola, ma il punto è che il tipico aspetto di un George è europeo. La consistenza dei miei capelli mi tradisce. Non potrei mai passare per europea e non vengo presa neanche per africana. È come se il sangue che mi scorre nelle vene rispecchiasse la realtà in cui mi sono abituata a vivere. Divisa, corrotta, frammentaria. Cosa rappresento? Il continente africano o una visione molto più europea della vita con in più una sensibilità americana?”
Quando e come è apparsa la poesia nella tua vita?
Quando ero molto piccola, avevo quattro anni. Poi ha continuato a crescere e crescere dentro di me come se fossi una trottola, il gioco per bambini, o come se fossi l’ingranaggio di un macchinario ben oliato. La poesia è entrata nella mia vita prima che finisse l’era dell’apartheid in Sud Africa, una nazione tuttora divisa a livello razziale. Ancora oggi nei telegiornali assistiamo alla brutalità contro i deboli, gli indifesi, coloro che non hanno strumenti per difendersi. È evidente la semantica di anni e anni e anni di un discorso politico che ha intessuto la narrazione del contesto e del quadro psicologico di ogni uomo, donna e bambino sudafricano.
Da bambina vivevo nel mondo della mia immaginazione. Quando frequentavo la scuola elementare, tenevo un diario. In quegli anni soffrivo di una leggera depressione. Quando avevo soltanto otto anni, già inviavo i miei componimenti al giornale locale. La poesia è apparsa così nella mia vita. Tramite eventi tragici. La morte del mio amato nonno, che era muto; dopo la sua morte non sono riuscita a fare i conti con le relazioni affettive, così mi sono isolata dal mondo rinchiudendomi nella scrittura.
Sei una scrittrice molto prolifica: hai scritto numerosi saggi, romanzi e raccolte di poesie. Sembra che tu sia dotata di una creatività straripante che trova espressione in multiple dimensioni. Da dove arriva questa spinta irrefrenabile a scrivere?
Il dolore. I traumi. I crolli nervosi. Essere ricoverata per depressione per sei mesi in un ospedale statale di Johannesburg, svolgendo per ore terapia occupazionale per mettere a tacere il rumore dentro la mia testa. La voce che continuava a dirmi che non sarei mai stata brava abbastanza, che nessuno mi avrebbe mai amata. E così ci sono queste dimensioni multiple dentro di me, sono strati tra i quali c’è ogni volta un paradigma, un personaggio, una maschera, un costume diverso.
Per tutta la vita ho lottato contro la fatica mentale, l’esaurimento e l’insonnia. Certo, la malattia bipolare e mentale, la sofferenza e il dolore degli altri hanno giocato un ruolo nella mia vita e rispetto alla mia devozione verso la poesia. Ma dovete sapere questo. Ho sempre, sempre, sempre considerato la poesia una benedizione in senso naturale; esiste per me come la legge di gravità, le leggi della termodinamica, il rapido alternarsi di mania e ipomania, e come l’etere, l’aria, il fuoco e l’acqua.
Mi ha salvato la vita più e più volte. La sua fiamma divampava e come per magia mi restituiva alla vita, e quella benedizione sovrannaturale che si irradiava dalla tomba verso l’universo infinito si riaccendeva dentro di me, dove regnava un inverno perenne. I poeti non sono sempre considerati degli intrusi? Specialmente le donne poetesse contemporanee, indipendentemente da razza, fede, background culturale, nazione, tribù, dalla ricerca che stanno conducendo o dal Paese da cui provengono.
Le tue poesie sembrano ricreare l’esperienza del sogno: il lettore attraversa paesaggi in continua trasformazione, stati d’animo, atmosfere, poi incontra familiari, amici e personaggi celebri. Le parole riecheggiano nell’aria o nella mente, i ricordi si materializzano. Riconosci il tuo lavoro in questa descrizione? Puoi parlarci del tuo processo di scrittura?
Lavoro. Lavoro molto, molto duramente per creare quei paesaggi così vividi in cui fuggire, una capsula del tempo piena dei tesori dell’infanzia. Tutto ciò che scrivo, siano saggi, op-ed o racconti brevi, ma specialmente questi ultimi, trovano ispirazione nel lavoro di Jean Rhys e F. Scott Fitzgerald. Per quanto riguarda le novelle, mi ispiro alla magnifica figura del giovane Hemingway che guida ambulanze durante la guerra prima di venire ferito, prima di Parigi, prima della Spagna, prima dell’Hemingway che conosce Gertrude Stein e Alice B. Toklas. La figura chiave, la più illustre, a cui mi sento più vicina non è femminile ed è tutt’altro che un poeta: è il filosofo Nietzsche.
Hai posto la prima parte della domanda come se lo scrittore fosse un essere distaccato che vive in un regno dove tutto è più soffuso e mi piacciono molto le parole che hai scelto. Ho perso il conto di tutte le volte in cui ho chiesto a qualcuno di venire a salvarmi. Così scrivo e quando scrivo è come se fossi in uno stato delirante in cui chiedo a me e me soltanto di venire e tornare e ritornare a salvare la ragazza che affoga nella parte alta della piscina, o a impedirle di tuffarsi in acque poco profonde e a sollevare il suo corpo senza vita da quella tomba che è il mare.
Le tue poesie sono spesso intitolate ad altri scrittori, poeti, artisti. I testi stessi delle poesie sono spesso abitati da personaggi letterari o artisti del mondo letterario o cinematografico, in modo tale da creare una complessa rete di riferimenti intertestuali e interculturali. Cosa significa per te intrecciare la tua arte con quella di altri?
Libertà. Libertà dalla mentalità e dell’attitudine schiavista. Completa, totale e assoluta liberazione.
In alcune tue poesie descrivi emozioni legate alla depressione. Di recente, hai scritto una raccolta di racconti brevi su donne illustri della storia che si sono suicidate a causa dei loro disturbi mentali. Perché senti l’urgenza di dare espressione artistica a questi sentimenti?
Amo troppo la verità. Trovo in essa così tanta bellezza, nonostante i suoi confini siano come frangiflutti. Pronti a sputarti fuori dall’oceano o a ingoiarti con tutta la tua barca. In entrambi i rami della mia famiglia c’è l’impronta della pazzia e, parallelamente, della pura genialità, c’è una storia di alcolismo e tossicodipendenza. È stato difficile elaborare tutto ciò, incluso lo stigma di avere un padre con una malattia mentale e che era stato nello stesso ospedale della poetessa sudafricana Ingrid Jonker (che aveva avuto una relazione con André Brink, rinomato scrittore, studioso e accademico). Il tristemente noto Valkenburg Psychiatric Hospital. Tutto questo ha plasmato buona parte della mia scrittura negli ultimi anni, i miei due blog e la mia poesia.
Il fatto che tu sia una scrittrice così prolifica fa pensare che la scrittura sia un’attività a tempo pieno per te. È così oppure scrivere è un’attività secondaria?
Al momento il mio computer è in riparazione e ho tempo per una routine normale. Svolgo le faccende di casa, cucino un po’, trascorro tempo di qualità con i miei amati genitori. Cerco di non pensare ai rimpianti ma di tanto in tanto mi succede. Nell’anno appena trascorso, tra quarantene, lockdown e le conseguenze su scala mondiale della seconda ondata del Covid, la scrittura è diventata un’attività secondaria.
Secondo te, è possibile parlare di una poesia africana femminile? Se sì, puoi individuare gli elementi che caratterizzano un’eventuale arte poetica delle donne africane?
Secondo me sì, anche se non leggo poesie di donne africane quanto dovrei, non per qualche motivo in particolare ma solo perché non ne ho mai la possibilità. Dove sono queste poetesse? In America ricevono molta più pubblicità specialmente se hanno frequentato Università prestigiose. Mi tengo alla larga dalla pubblicità nel mio Paese. Qui ho le mie origini ma mi sento più in sintonia con alcuni Paesi che si trovano al di fuori dei confini africani.
La mia è davvero una nazione arcobaleno. Conosco donne poetesse, ma non conosco il loro lavoro a un livello intimo. Comunque, nutro per le poetesse del continente africano profondo rispetto e ammirazione. Stanno andando avanti a grandi falcate e molto velocemente.
Qual è il tuo ultimo lavoro? Puoi condividere con noi i tuoi progetti futuri?
Ho continuamente nuovi lavori in via di pubblicazione. Praxis [un magazine di arte e letteratura, NdT] ha pubblicato The Anatomy of Melancholy che è scaricabile gratuitamente. Poi c’è una raccolta di racconti brevi semi-autobiografici inspirati a figure femminili illustri nella storia della letteratura, che hanno cambiato il mondo della scrittura e hanno portato la rivoluzione delle donne anche in quell’ambito letterario che era stato sempre dominato da un sistema patriarcale. Il mio ultimo lavoro mi sta molto a cuore, sulla copertina c’è una fotografia dei miei nonni paterni.
Tutte le mie opere in qualche modo parlano di come le persone siano diffidenti, spietate e intolleranti rispetto alla malattia mentale. Lo stigma esiste ancora e spero di poter cambiare il mondo un po’ per volta con ogni capitolo della mia vita. [Raccontando] l’oppressione, l’emancipazione e anche la liberazione.
Intervista e traduzione a cura di Gaia Resta
Link all’intervista originale in inglese
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