vangile gantsho è una poetessa, guaritrice e co-fondatrice della casa editrice impepho press. Straordinariamente fiera della sua nerezza, ha partecipato a eventi e festival letterari in Africa e all’estero. gantsho è autrice di due raccolte di poesie: Undressing in front of the window (2015) e red cotton (2018). Si è laureata nel 2016 presso la Rhodes University in Sudafrica ed è stata nominata dal periodico sudafricano Mail & Guardian tra i 200 Migliori Giovani Sudafricani del 2018.
La sua più recente raccolta, red cotton, esplora il significato dell’essere nera, queer e donna nel Sudafrica di oggi; è stata eletta City Press Top Poetry Read of 2018 e selezionata per il premio National Institute for the Humanities and Social Sciences 2020 Award.
In quest’intervista ad AfroWomenPoetry ha parlato della sua poetica, di femminismo nero, del Sudafrica e molto altro ancora.
Quando e come hai scoperto la poesia? Oppure è stata la poesia a scoprire te?
La seconda, di certo. La poesia mi ha scovata quando ero giovane e in cerca di qualcosa, ed è rimasta con me da allora. Scrivo da quando mio padre mi suggerì di scrivere su un quaderno tutte le storie che inventavo. Quelle storie alla fine diventarono poesie, e ho continuato a raccoglierle anche negli anni della scuola superiore (anche se sono la prima ad ammettere che fossero terribili). Con il passare del tempo ho letto, ascoltato e scritto ancora e ancora. Per fortuna ora sono cresciuta rispetto ad allora.
Ci descrivi il contesto in cui sei cresciuta?
Quando ero bambina, ci trasferivamo spesso. Più che altro – così mi dicono – per via dell’attivismo politico di mio padre. Mia madre era, ed è tuttora, un’infermiera e ho due fratelli. Sono la secondogenita. Ho iniziato ad andare a scuola quando avevo 4 anni. Ho dovuto ripetere la prima media quando mi sono trasferita da una scuola xhosa a una scuola inglese; è stato allora che ho cominciato a perdere la mia lingua madre.
Il continuo spostarmi da un luogo all’altro mi ha insegnato che i libri durano più a lungo delle amicizie e così ho cominciato a leggere. E per necessità ho iniziato a raccontare storie. Mio fratello più piccolo di 4 anni voleva ascoltare sempre una storia della buonanotte. Quelle nei libri che avevamo mi annoiavano, così le inventavo.
Sono cresciuta in una famiglia che mi ha protetto da tante crudeltà del mio Paese e abbiamo avuto le nostre difficoltà. Ho dei ricordi molto cari.
Quali elementi hanno influenzato la tua scrittura man mano che crescevi? La situazione socio-politica in Sudafrica ha plasmato il tuo modo di vedere le cose?
Non conosco scrittori che non siano influenzati dalla situazione socio-politica in cui vivono. Specialmente gli artisti.
Come descriveresti la tua poetica? Quali sono i temi e i tratti stilistici che caratterizzano le tue poesie?
Amo molti tipi di poesia. Lirica, narrativa, adoro la poesia in varie forme. Per quanto mi riguarda, mi interessa scrivere di temi personali e politici. Mi interessa la scrittura come confessione. Voglio scrivere un tipo di poesia che determini un cambiamento. Che raggiunga il cuore di qualcosa e lo cambi.
Mi piacciono le frasi brevi. Al momento sono appassionata di poesie in prosa. Sono ossessionata dalle interruzioni di riga, dagli spazi bianchi, dalle cesure. Scrivo molto in prima persona (soprattutto perché amo la scrittura confessionale e penso che questo punto di vista dia al lettore un accesso diretto all’emozione al cuore della poesia… Come se fosse invitato ad ascoltare un segreto). Inoltre, cerco di scrivere poesie che non supplichino il lettore di essere o meno d’accordo. Che possano fingere di presentare il bello e il grottesco con la stessa indifferenza. Che permettano all’osservazione di fare da guida, senza supplicare.
Si potrebbe dire che, attraverso la poesia, stia cercando di diventare meno bisognosa di attenzioni.
Sei co-fondatrice di impepho press. Quali sono le sue finalità? C’è un vuoto nel campo dell’editoria che la vostra casa editrice si propone di riempire?
impepho press è una casa editrice panafricana, femminista-intersezionale che si propone di celebrare la fragilità e la resilienza dell’esperienza umana. Cerchiamo di reclutare voci intrepide e in particolar modo femministe che, per dirlo con le parole di Audre Lorde, rifiutano di essere “schiacciate dalle fantasie che gli altri hanno di noi e mangiate vive”.
Parlo di storie di donne* (nere) che oscillano tra “la donna virtuosa” del capitolo 31 del Libro dei Proverbi e una puttana assatanata. Donne complesse che appartengono fieramente solo a loro stesse. Donne che non proclamano di essersi fatte da sole o di essere guarite e nemmeno di essere nel giusto. Donne interessanti.
E una scrittura che sia innovativa e sincera. Che giochi senza essere ossessionata da se stessa. Una scrittura che rimanga dentro.
Vogliamo contribuire a mettere insieme queste voci. Ad assicurarci che la storia sappia che siamo esistite.
Spesso reciti le tue poesie in occasione di eventi dedicati alla poesia. Come consideri il rapporto tra poesia e oralità?
Questa domanda mi lascia sempre interdetta. Questa separazione forzata della “poesia” dalla “oralità”. Nello specifico, la differenziazione tra poesia scritta e la parola pronunciata. Credo che la differenziazione sia razziale, ma forse sono io che la vedo così.
Appartengo a un popolo di poeti. Imbongi ayinqandwa (il poeta non può essere messo a tacere). I poeti sono divinizzati. È il poeta che redarguisce i re e inspira il popolo. Il poeta parla al Creatore. È il messaggero degli antenati. E sia che questi messaggi fluiscano su un foglio di carta o dalla lingua durante un evento, in ogni caso tutto comincia con le parole.
Nella tua biografia si legge che sei “una guaritrice” e che crei/sostieni “spazi che incoraggiano la guarigione (femminile e nera)”. Cosa significa essere una guaritrice e, nello specifico, guarire altre donne? La poesia è una forma di guarigione?
Sì. La poesia è guarigione, per me. Tramite la poesia ho trovato la mia vocazione spirituale e ho trovato il linguaggio in cui rivolgermi ai miei antenati. Sono una guaritrice spirituale qualificata, igqirha ngesiXhosa.
Essere una guaritrice significa saper ascoltare. Aprire e creare uno spazio per l’ascolto. Il tropo della “donna nera e forte” ha una tale prevalenza che ha portato molte donne a vivere con una lama a portata di mano. A costruire, crescere bambini e lottare, e a sanguinare in silenzio. Noi donne nere siamo forti, ma invisibili. Non siamo umane. E siamo sempre al servizio di qualcuno. Ciò che ci proponiamo di fare con impepho press è di creare uno spazio in cui le donne (nere) non debbano servire qualcuno o sopravvivere. In cui sia possibile danzare.
E ritengo che per creare una reale guarigione, dobbiamo tornare all’armonia. L’armonia ci richiede di ristabilire l’essenza Divina Femminile Nera e accoglierla in tutta la Sua gloria.
Il Sudafrica è considerato da molti il Paese più progressista del continente africano. Ciononostante, detiene il triste primato del più alto tasso di stupri del mondo. Con questa premessa, come descriveresti la condizione e la vita delle donne in Sudafrica?
È una domanda molto difficile. Per rispondere davvero, devo cominciare da quella malattia che è la “bianchezza”. E poi, quella malattia che è il capitalismo. E poi quella malattia che è il patriarcato.
La disarmonia.
Cos’è un Paese progressista? Un Paese occidentalizzato che emula i bianchi? Che fa penzolare l’essere bianco come una carota irraggiungibile a cui dobbiamo sempre aspirare? Il Sudafrica ha più città occidentalizzate (leggi eurocentriche) di tutta l’Africa, questo è vero. Aggiungi a questo i ristoranti in cui servono ai tavoli persone che non potrebbe permettersi di mangiare lì. In Sudafrica ci sono ghetti sovrappopolati, infestati dai ratti e con pochi servizi (se non nessuno), e ci sono zone rurali completamente abbandonate. I nostri livelli di disuguaglianza sono senza pari (in Africa). Aggiungiamo il patriarcato e la ferita infetta dell’Apartheid… Puoi vedere una BMW parcheggiata fuori da una baracca. Un pasto costoso pagato con una carta di credito scoperta. Un padre scomparso che torna in una casa dove nessuno ha bisogno di lui. Quattro donne che si stringono in una stanza perché hanno paura che se dormiranno ciascuna nella propria casa saranno stuprate nel cuore della notte dal ragazzo di cui la madre non si è potuta occupare a Città del Capo e che ora è un ezilalini [abitante di aree rurali, NdT] annoiato.
Tutto questo non per cercare scuse. Ma per dire che la violenza genera violenza. E le donne (nere) sono le ultime della catena alimentare.
Un mondo che non riesce a capire il valore della Divinità Femminile Nera è un mondo che non dà valore alla guarigione. O, forse, che non vuole accettare di essere malato.
Ti definisci una femminista? Parlaci del movimento femminista a sostegno dei diritti delle donne in Sudafrica.
Una femminista nera, sì.
Ci sono molti movimenti femministi, ufficiali e informali. Donne di potere, studentesse attiviste, contestatrici delle multinazionali, anziane delle zone rurali… le donne nere di questo Paese sono in grande fermento.
Qualche anno fa abbiamo organizzato la manifestazione The Total Shutdown. Le donne hanno detto basta! The #RUReeferenceList,… 1in9, POWA, Soul City, Hlanganisa. Senza contare le donne che gestiscono rifugi e mense dalle loro case senza alcun finanziamento. Donne che manifestano fuori dalle aule di tribunale e che si presentano davanti alla casa di uno stupratore brandendo i sjamboks [tipico frustino di cuoio, NdT].
Non possiamo contare sul Governo, ma sappiamo come difenderci da sole.
In un senso più ampio, c’è un movimento lgbtq+ a sostegno della diversità di genere che si esprime anche attraverso la cultura e l’arte?
Le organizzazioni che ho citato sono intersezionali. Sono organizzazioni che sanno che non possiamo parlare di libertà se non parliamo di libertà per tutti. Di sicurezza per tutti. Di diritti umani per TUTTI.
(e quelle che ho elencato sono soltanto alcune delle organizzazioni, quelle che mi sono venute in mente.)
Che ruolo può ricoprire la poesia nel mondo attuale, caratterizzato allo stesso tempo da globalizzazione e individualismo estremi?
Cito Nina Simone che, in un’intervista del 1960 ad Andy Stroud, rispose con grande eloquenza: “A mio avviso, il dovere di un artista è di riflettere il tempo in cui vive. Ritengo che questo riguardi pittori, scultori, poeti e musicisti. La scelta è di ciascuno, ma io SCELGO di riflettere il tempo e le situazioni in cui mi trovo. Questo, secondo me, è il mio dovere. E in questo periodo cruciale delle nostre vite, in cui tutto è avvolto dalla disperazione e ogni giorno si lotta per la sopravvivenza, penso che non si possa fare a meno di essere coinvolti”.
Ma scrivere poesie che facciano tremare i polsi non è abbastanza. Dobbiamo sforzarci di essere delle brave persone. Guarite. Così che non ci siano più poeti eccezionali che però picchiano la partner o che molestano sessualmente le donne durante i festival…
TUTTI dobbiamo migliorare. In quanto esseri umani. Dobbiamo guarire. E lasciare che l’arte lo rifletta.
Il poeta italiano Giuseppe Ungaretti, tra i più importanti del XX secolo, diceva che la poesia è tale quando porta in sé un segreto. Qual è il segreto della tua poesia?
Non sono sicura di saperlo. Sto ancora cercando di guarire. E di svolgere il lavoro a cui sono stata destinata. La poesia è uno dei modi in cui faccio tutto questo.
Puoi raccontarci quali sono i tuoi progetti per il futuro?
La impepho press ha in programma cose bellissime per il 2021. Nuovi libri. L’ampliamento del nostro archivio. Giocare con i vari modi in cui ampliare il nostro archivio.
Al momento mi sto occupando di gestire e creare in maniera attiva spazi per donne (nere), e continuerò a farlo. Poi il lavoro spirituale. Occuparmi di mio figlio. Dire di sì alle opportunità che la vita mi offre. Ecco i miei progetti.
Intervista e traduzione a cura di Gaia Resta
*vangile gantsho usa per la parola “women” lo spelling “womxn” proposto dai movimenti femministi per affermare l’identità delle donne come inclusiva e intersezionale e soprattutto non definita in relazione all’uomo.
Link all’intervista originale in inglese