Quando io e Sylvie avevamo sei anni
mangiavamo *jambula fino ad avere la lingua color indaco
poi tornavamo a casa, con la notte alle calcagna.
Al mattino, con la fronte ancora unta
delle benedizioni violette, avvolgevamo
le nostre braccia-stecche intorno ai suoi rami
infilavamo bambole di fibra di banana
nelle cavità delle sue radici.
Fingevamo di fasciare bambini in lenzuola d’erba,
controllandoli tra un nascondino e l’altro.
Ora che abbiamo ventisei anni
siamo in un bar in una strada aberata
mangiamo Caesar salad e beviamo vino bianco.
Sylvie solleva l’anulare verso il sole e dice
“Queste mani lavano i suoi boxer”. E io la immagino come
una sacerdotessa in un harem
dove le mogli vengono giudicate
in base alla loro destrezza
nel togliere le macchie di feci
dalle mutande dei loro mariti
e al fervore delle loro preghiere
per scacciare l’eccitazione del loro uomo quando incontra
ragazze con seno sodo e fianchi rotondi.
Sylvie sceglierà il parto cesareo per non perdere tonicità,
il bambino berrà dal biberon e il suo seno rimarrà
alto.
Mentre io resto
a guardare le sue suole macchiate di color malva
e il rossetto nero opaco
che non sanguinerà. Neanche dopo aver bevuto.
Forse lei sanguina in altri modi.
***
*Jambula = frutto di colore viola, di forma simile alla prugna e sapore analogo a quello delle olive
***
Jambula Tree [Jambula Tree, di Lillian Akampurira Aujo]
Traduzione di Rosa Cangiano
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