Rita Zaburi

Fare della parola uno strumento di guarigione, per sé e per gli altri, soprattutto per le donne. Rita Zaburi vive in una città difficile, in un Paese difficile. Vive a Goma, Repubblica Democratica del Congo. Paese ricco di risorse naturali ma dove queste stesse risorse rappresentano da sempre una sorta di maledizione. Il desiderio di impadronirsene ha causato – e continua a causare – conflitti, disastri ambientali, violenze. E le donne ne sono spesso le principali vittime. 

Credit: Aristarque Picha. Art Aristarque Photography – Goma (RDC)

Goma è anche la storia di massacri di civili e crimini di guerra perpetrati dai frequenti attacchi di gruppi ribelli e di disastri causati dall’eruzione del vulcano Nyiragongo. Ma in questo contesto di crisi continue ci sono voci femminili che vogliono trasmettere il dolore, sì, ma anche la capacità di resistere, di guarire e di ricostruire ogni volta.

Una di queste è quella di Rita Zaburi, ventiseienne, impegnata in attività di arteterapia nelle comunità di Goma, insieme ad altre donne e giovani come lei. Ha fondato Elikya, che in lingua lingala significa speranza. Perché è questo che vuole trasmettere alla sua gente. Per Rita parlare è anche un modo per superare la paura e il senso di impotenza che spesso assalgono i giovani del suo Paese, travolti da eventi più grandi di loro.

Quando il mondo occidentale pensa alla Repubblica Democratica del Congo e in particolare a Goma, vengono in mente guerre civili, violenze volte a monopolizzare le ricchezze del sottosuolo, l’instabilità politica e sociale e coloro che pagano il prezzo di tutto questo sono soprattutto donne e bambini. Ciò che accade, però, non implica passività e rassegnazione da parte della popolazione e da parte delle donne. Tu, ad esempio, hai deciso di usare la parola per denunciare, per sensibilizzare. Quanto è difficile per una donna nel tuo Paese farsi ascoltare?

Nel mio Paese non è così facile farsi ascoltare se non si ha un certo rango politico, in quanto donne poi è davvero difficile. Ad essere sincera, in questo momento storico per una giovane ragazza vivere a Goma vuol dire vivere con un sentimento di impotenza rispetto a tutto ciò che accade. E mi sento impotente come donna e come giovane artista. La guerra qui persiste e io non posso farci nulla. Nonostante le mie capacità io non posso davvero fare niente per cercare di spingere le autorità a compiere i passi necessari per porre fine a questa guerra. A Goma viviamo nella paura e soprattutto con questo sentimento di incapacità perché qualunque cosa proviamo a fare nessuno ci ascolterà.

Oltre ai social network, dove condividi molto dei tuoi lavori, hai già pubblicato qualcosa? Com’è il panorama editoriale e discografico nella RDC per un giovane di talento?

A parte i social network, sono apparsa in una raccolta di poesie curata e pubblicata in Belgio insieme ad altre 7 ragazze slameuse della RDC. Il titolo della raccolta è Gomatricielles. Il panorama editoriale nel mio Paese, soprattutto qui a Goma, è molto limitato e di difficile accesso, principalmente a causa della mancanza di mezzi finanziari e di sponsor o case di produzione che possano supportare i giovani di talento ad andare avanti e portare a frutto le loro opere.
Per quanto riguarda il panorama musicale, ci sono molti studi di registrazione audio e video ma, anche in questo caso, la difficoltà di mezzi finanziari per i giovani artisti e la mancanza di sponsor fa sì che non riusciamo a registrare spesso i nostri lavori per metterli poi in rete; ma ciò che ci spinge a non registrare le nostre canzoni – anche se magari riusciamo ad avere i mezzi per farlo – è che poi i nostri lavori vengono consumati gratuitamente. Questo significa che i giovani artisti non riescono a guadagnare con il loro lavoro. Qui a Goma è davvero difficile vivere della propria arte.

Fai parte del collettivo “Goma slam session”. Come e perché è nato? Quali sono le vostre attività e quante donne ne fanno parte?

Il collettivo Goma Slam è stato creato nel 2017 da giovani appassionati di slam, 5 giovani che si sono riuniti e hanno scoperto di avere una passione in comune e hanno deciso di creare questo gruppo. Quando è stato creato ne faceva parte solo una ragazza che tra l’altro non ha potuto continuare. Poi, quando mi sono unita anch’io, per molto tempo sono rimasta l’unica fino a che altre sono arrivate. Fino ad ora però il numero di ragazze rimane davvero minimo rispetto a quello dei ragazzi.
Ad oggi non partecipo più attivamente, ma rimango comunque membro del collettivo che segue diversi progetti: sessioni settimanali, serate mensili, attività nelle scuole che consistono nel dare nozioni di slam agli studenti. C’è anche la Slam Academia, che si occupa di coaching dei giovani che vogliono imparare lo  slam e le sessioni riservate alle  giovani ragazze integrando alcune nozioni di leadership e slamterapia che consiste nell’aiutare le persone a gestire il proprio stress e le proprie emozioni attraverso l’approccio dello slam poetry.

Poi, tu stessa hai fondato un altro importante collettivo, Elikya. Si concentra principalmente sull’arteterapia – parliamo di slam, ma anche di spoken word, di danza, di musica. Riunisce artisti di età diverse e l’obiettivo è restituire forza e fiducia alle comunità che hanno subito violenza, agli sfollati, ai rifugiati. Ce ne parli? E quanto pensi che l’arte possa aiutare a guarire le ferite dell’anima?

Elikya è un centro di arteterapia di cui sono appunto promotrice. Dopo aver beneficiato delle nozioni di slamterapia nel collettivo Goma Slam Session mi sono dedicata molto di più a questa disciplina. Praticando le sessioni di terapia attraverso lo slam mi sono sentita molto più vicina ai partecipanti che supervisionavo, quindi ho pensato di iniziare a fare sessioni che fossero più inerenti all’arteterapia: praticando solo lo slam ci si può sentire magari limitati ma attraverso l’arte in generale abbiamo potuto toccare altre discipline e i beneficiari delle sedute si sono sentiti ancora più liberi di esprimersi in quella in cui si trovavano più a proprio agio.

L’obiettivo principale di Elikya è quello di aiutare attraverso l’arte – in particolare coloro che sono momentaneamente sfollati a causa della guerra – a gestire meglio il loro stress, le loro emozioni. Ma anche dare loro speranza, aiutarli ad avere fiducia in sé stessi e a trascorrere momenti in cui si divertono e possono magari dimenticare un po’ tutto il peso legato a questa difficile situazione. Una situazione che grava sulle spalle di tutti.

Penso che l’arte contribuisca in modo significativo a guarire le ferite dell’anima, soprattutto con le sessioni di arteterapia, che permettono ai partecipanti di avere del tempo da dedicare a un dialogo sincero con sé stessi e di affrontare le proprie ferite esprimendosi creativamente. Questo può avvenire attraverso la conversazione, la danza, la musica, il disegno. L’importante è esprimere le proprie emozioni.
Nella vita quotidiana gli individui tendono a seppellire queste emozioni dentro di sé e questo li divora dall’interno. Ma l’arteterapia aiuta a esternare i propri sentimenti ed emozioni e allo stesso tempo guarire.

Credit: Kasereka Mukoni Aubin. Sessione di arteterapia condotta dai facilitatori Elikya, nel campo profughi di Mugunga

Che tipo di reazione hanno i tuoi coetanei, ma anche le persone più adulte, a quello che dici, agli argomenti che affronti? E precisamente, quali temi hai scelto di affrontare e perché?

Alcuni si identificano nei miei scritti, altri si sentono particolarmente colpiti e desiderano anch’essi realizzare grandi cose per essere poi citati come modello. In ciò che scrivo parlo spesso di me e del mio modo di vedere il mondo, cerco di diversificare i miei scritti in più temi. Affronto spesso temi legati alle donne, a tutto ciò che esse sono nella società in cui vivo.
Scelgo spesso di parlare di donne perché io lo sono, e a volte ciò che accade intorno a me e che riguarda le donne mi ripugna. Dico a me stessa che attraverso i miei scritti posso toccare diverse persone nella mia società, nella mia comunità e quindi sperare in un cambiamento positivo riguardo ai pregiudizi che ci hanno incollato addosso.

Quanto è cambiata la tua vita da quando ti sei dedicata allo slam?

È cambiata molto di più da quando mi sono dedicata all’arteterapia. Con lo slam, mi sentivo nel mio elemento, parlavo al mio pubblico che era molto attento e questo mi dava una sensazione di soddisfazione, ma da quando conduco sessioni di arteterapia mi sento ancora più viva, mi avvicino di più alle persone condividendo i loro dolori, i loro stress, così come la loro gioia. Una parte di me si ritrova e si sente vulnerabile proprio come chi partecipa alle sessioni e mi dà la sensazione di appartenere a questo mondo, mi spinge a sentirmi ancora più umana, e vedere un sorriso sincero spuntare sulle labbra dei partecipanti dopo tanti giorni di tristezza e malinconia mi scalda il cuore ancor più degli applausi che il pubblico fa dopo una buona prestazione.

Se fossi un uomo” è un testo molto potente. E anche, direi, un invito a tutti gli uomini ad essere grandi, giusti, illuminati e “amici delle donne”, a non spaventarle con i loro atti violenti e distruttivi. Non pensi però che se le donne avessero più spazio, in politica, nella sfera pubblica, le cose sarebbero diverse? Le donne, ad esempio, non violentano…

Esatto, se le donne avessero più spazio le cose potrebbero essere diverse, ma ci sono anche donne che hanno ottenuto grandi risultati. Cito Eva Bazaiba per il mio Paese. Sì, se dessimo molto più spazio alle donne queste otterrebbero grandi risultati .

Usa uno dei tuoi versi per mandare un messaggio alle donne di Goma, ed un altro per mandare un messaggio a chi all’estero conosce il tuo Paese, la Repubblica Democratica del Congo, solo attraverso il prisma dell’attualità e delle notizie più drammatiche.

Questo è per le donne di Goma: “Allora smetto di piangere per insegnarti a sorridere/Non piango più per la parità, impongo l’equità/Mi dicono che una donna non può nulla, eppure io sono sul palco”.
Questo per chi vive nel mondo: “In questa lotta contro la tirannia, l’arte mi fa da scudo/Le mie parole sono frecce che trafiggono i cuori umani senza ferirli/Pensano ai dolori causati dalla guerra”.

Intervista di Antonella Sinopoli

Link alla versione originale dell’intervista in francese

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